showroom Fabio Gatto_Treviso
By isabella • Terra Cruda • 5 mag 2014
Treviso. In questa città, più che in altri luoghi, avverto il passare delle ore annunciato e amplificato dal battito degli orologi inglobati nei campanili delle chiese: sembrano sovrintendere, dirigere e incalzare il movimento di questa produttiva provincia. Cammino. Le vetrine della mattina specchiano mani che rimuovono le lievi polveri depositatesi. Ogni traccia del giorno prima viene accuratamente cancellata. La pavimentazione contenuta nel perimetro delle mura appare levigata e riflette la luce chiara del primo sole: nessuno ha lasciato tracce e nessuno sembra aver attraversato la città.
Raggiungo un palazzo del cinquecento. Due piani da dedicare ad un futuro show-room per accontentare il gusto e le richieste raffinate della femminilità.
Lo spazio è ampio, profondo e conduce ad un giardino. Un consistente setto murario, di recente costruzione, maschera e inganna la suddivisione spaziale dell’ambiente originario, tagliandolo longitudinalmente.
Sono incuriosita. Noto i primi tentativi di indagine sulla pelle delle pareti: qualcuno ha rimosso qua e là gli intonaci più recenti. Sotto, scorre qualcosa di prezioso.
Un intonaco liscio, compatto e candido, traveste e incerniera la parte dell’involucro murario che contiene le memorie: strati di affreschi di epoche diverse imbevuti e sigillati in un liquido bianco che apparentemente ne azzera la storia, rendendo mute le pareti. Il soffitto è scandito dal ripetersi di travi e cassettoni in legno decorato e spinge l’immaginazione nel passato.
Salgo. Le stanze del piano primo presentano pareti in mattoni mescolate ai tamponamenti di vecchie e incurvate tavole in legno intessute tra loro. Traballanti intonaci aggrappati alle lettere di vecchie carte ingiallite, si alternano alle tavole sbiancate che celano i passaggi di un tempo. La ruggine di qualche raro chiodo, rimasto ancora aggrappato, sembra tenere insieme brani di affreschi che, sebbene risultino fragili, conservavano ai miei occhi, un potere evocativo in grado di farmi percepire la vita tenace di quelle pareti, e mi suggerisce la visione dell’intero ambiente.
Mi sono chiesta in che modo uno spazio che presenta una scena così ricca di storia, possa essere analizzato, studiato e progettato in un altro luogo che non sia lo spazio stesso su cui intervenire. E in effetti la risposta che mi sono data mi ha trattenuta a pensare, ideare e creare lì, in quello stesso spazio respirandolo, percorrendolo e osservandolo. Mi sono seduta di fronte ad ogni frammento cercando di capire in che modo armonizzare un sistema di stratigrafie interrotte da bruschi interventi e dalla picchiettante insistenza di uno scalpello per far aderire un manto di intonaco cementizio. Un invito a dimenticare ciò che avevo imparato, a non farmi limitare da una modalità di intervento ma piuttosto a pormi come ricettore di messaggi e cercare di ascoltare ciò che evocava quel luogo. Sovrapposizioni, macchie variopinte di materie liquide, veli di terre, affreschi, tessiture di pigmenti fragilmente aggrappate al corpo della muratura. Ridare valore al tempo trascorso, rivalutare e riordinare tutte quelle tracce, cucirle fra loro senza ricostruire necessariamente, le parti mancanti degli affreschi forzandone il disegno.
L’aria è satura di ricchezza. É come se lo spazio, accartocciato nel disordine, attendesse di essere dispiegato a convalidare quella leggerezza e levità e quel sapore poetico in grado di restituire un senso ad ogni stanza. Spogliando le pareti dai loro manti bianchi, strato su strato nude memorie emergono e ritornano a parlare riprendendosi il loro “potere emotivo”.
Una pioggia incessante ha segnato l’inizio dei lavori edili. Lo spazio si è animato, il silenzio è stato interrotto dai rumori prodotti dal ritmo del crescente movimento del fare: operai hanno sostituito le travi diventate troppo deboli per reggere un solaio, elettricisti hanno avvolto lo spazio di collegamenti radianti, abili artigiani hanno montato tassellature in legno e posato pazientemente pavimenti di recupero, falegnami hanno rivestito di tavole in larice alcune delle pareti, carpentieri hanno costruito strutture verticali, il fabbro ha lavorato luminosi infissi in ottone.
Il piano terra trasmette ora un senso di solidità, di gravità e dialoga con la trasparenza cromatica di sottili velature aderenti alla tessitura in mattoni. Una libreria in legno scura dall’aspetto austero modula la superficie delle pareti percorrendone l’intera altezza. Materie inflessibili e rigorose si alternano a pareti in legno che ho dipinto di fiori: segni imprecisi e spontanei, rivestono gran parte dell’ambiente interrompendo e frazionando il senso di sobrietà.
Il recente setto murario dallo spessore importante, è stato rifoderato con un intonaco in terra dalla granulometria facilmente riconoscibile. Una miscela ricca di argilla, per provocare, in alcune parti, la tipica tassellatura delle contrazioni della terra. E’ ora l’ elemento che contiene il collegamento verticale costituito da una nuova scala in legno scuro. Salendola, i pesi si alleggeriscono, tutto si bagna di colori neutri e toni chiari e i fiori continuano a percorrere le pareti.
Ho voluto intervenire sugli affreschi cercando di non coprire la storia ma piuttosto integrarla amalgamandola con il resto. Ho cercato di seguire la forma delle tracce dando nuovo equilibrio ad una composizione che risultava confusa. Per riprendere i cromatismi dell’esistente ho scelto la calce, mescolata con piccole dosi di terra ocra e terra rossa. Ho immaginato le pareti come fossero un tessuto che il tempo ha consumato lacerandolo. Ho immaginato di rammendarle, sovrapponendo decorazioni in calce quasi fossero drappi. Il battifilo usato solitamente per segnare un livello è diventato lo strumento che ha disegnato le trame e l’ordito di questo immaginario tessuto. Un’azione che appartiene ai gesti meccanici e abitudinari per allineare due punti ha assunto nuovo significato diventando quasi un rituale: un movimento secco e deciso, il suono di una corda che rimbalza, il segno di una linea risultante dal filo impolverato di terra blu, ocra, rossa.
E’ gratificante osservare come l’ambiente sia stato armoniosamente trasformato, ma se annullassi il tempo trascorso dal momento in cui ho varcato la soglia di quello spazio, all’ora in cui è stato ripulito ogni truciolo di legno, sgomberato ogni recipiente contenente oli, terre e quant’altro, ogni cavo, ogni attrezzo di cantiere, non avrei chiaramente la stessa corposa percezione. Non si tratta solo di uno spazio che ha assolto uno scopo pratico e utilitaristico offrendo la materia della sua storia. Il valore intimo e autentico risiede nell’aver desiderato un dialogo vivo e rispettoso con il passato. Dialogo concretizzato dalla vitalità dal fare, espresso dall’abilità di mani pensanti, sprigionato da una percezione istantanea e sensibile in grado di intervenire improvvisando, consolidato dall’agilità di coordinamento di più figure, trovato nel confronto e nella ricchezza espressiva di un disegno a mano libera.